Una bella vacanza. Forse – recensione di Giuseppe Culicchia
Agli scrittori italiani viene rimproverato non di rado di scrivere storie troppo intimiste, o se si preferisce ombelicali, specie all’esordio. Ma Una bella vacanza. Forse, prima prova narrativa di Giuseppe Milazzo, è un romanzo doppio, ed è tutto fuorché ombelicale, malgrado si intuisca che alcune esperienze personali abbiano fatto da magazzino di personaggi, voci, volti, storie. Ma così funziona la scrittura, che inizia molto prima dell’apertura di un file sul proprio computer, con l’osservazione e con l’ascolto.
Il protagonista del libro, Prospero Marino, gastroenterologo e docente universitario, ripercorre la propria esistenza, divisa tra l’infanzia e l’adolescenza lilibetane e la giovinezza e la maturità bolognesi, perché proprio nella città felsinea ha non solo conseguito la laurea ma anche iniziato la carriera accademica. Scorrono così, con un abilissimo montaggio, ricordi risalenti alle varie fasi dell’esistenza del protagonista e voce narrante del libro, in cui vivide immagini di una Sicilia spesso agreste si accompagnano a flashback sugli anni dell’università, pieni di voglia di vivere, di incontri e di amicizie destinate a segnare l’esistenza di Prospero Marino, che a Bologna conosce anche l’amore.
Ma squarci sempre più ampi di presente irrompono nel passato. Ed ecco la seconda parte della storia, dove il romanzo di formazione lascia il posto al romanzo civile. Un romanzo civile che prende il via nel momento in cui al protagonista viene proposta la candidatura a sindaco di Libea. Lui, tentato dall’idea di fare qualcosa di concreto per la città natale, accetta. E torna nella terra natia. Ma subito s’imbatte in personaggi pronti a chiedere favori, soldi, posti di lavoro per se stessi o per i congiunti, possibilmente nel ruolo di assessori. Prospero Marino coglie immediatamente l’ambiguità della situazione. Non si scoraggia, e tuttavia si illude. E l’illusione consiste nella speranza di poter cambiare lo stato delle cose, non avendo da parte sua né interessi economici da tutelare né mogli o figli da sistemare. Ed è a questo punto che l’autore Giuseppe Milazzo cita sia i “quaquaraqua” del Giorno della civetta di Sciascia sia Tomasi di Lampedusa: vedi l’accenno a Tangentopoli, “pagarono in pochi per le malefatte di molti, e non cambiò nulla”. Per tacere delle raccomandazioni del padre del protagonista, a sua volta medico, che al figlio dice: “Stacci lontano. Fai il medico. Sono tutti gli stessi”.
Sarebbe ingiusto svelare qui gli sviluppi della trama e l’esito del ritorno alle radici di Prospero Marino. Ma è giusto sottolineare che si resta colpiti, leggendo il romanzo di Giuseppe Milazzo, dallo stile dell’autore: è raro in un esordiente un tale controllo, un uso così sapiente della lingua, un cura tanto maniacale del ritmo. Milazzo ha dalla sua una scrittura chirurgica, precisa, tagliente, dove nulla è lasciato al caso a cominciare dalla scelta di ogni singolo vocabolo e dalla punteggiatura. Ma non solo. Perché se le parti dedicate all’infanzia e agli anni della formazione del protagonista toccano spesso corde di grande lirismo, quelle dedicate alla politica oscillano di continuo tra il grottesco il sarcastico: e solo una padronanza assoluta della materia permette l’uso di registri tanto diversi. Resta da dire dell’amore per la propria terra, che traspare da ogni pagina nelle parole dell’autore. Un amore che si accompagna a quello per Bologna, città che ha adottato il giovane studente di gastroenterologia arrivato da Marsala con una valigia piena di sogni, tra cui, ora lo sappiamo, quello di scrivere questo romanzo. Specie nella prima parte del libro, l’alternarsi tra questi due luoghi è incessante, fa venire in mente il Woody Allen di Blue Jasmin. E dire che il protagonista del romanzo non ama il cinema, si addormenta in sala. Cosa che di certo non capita leggendo Una bella vacanza. Forse.
Giuseppe Culicchia