Recensione di Julio Savi de “Tra i cieli dell’Impero”
Mauro Moruzzi. Tra i cieli dell’Impero, Storie di guerra e d’amore nell’Africa Orientale Italiana, Paolo Emilio Persiani Editore, Bologna, 2024
Tra i cieli dell’Impero, il quarto dei romanzi pubblicati da Mauro Moruzzi in toto o in parte ambientati in Eritrea a ricordo dell’epoca coloniale italiana, mi è parso un libro poliedrico. Vi ho identificato una struttura centrale portante, che giustifica il titolo, la volontà di rinnovare il ricordo degli aviatori italiani della 412ª Squadriglia Autonoma Caccia Terrestre della Regia Aeronautica Militare Italiana che hanno compiuto «gesta e missioni eroiche straordinarie» (p. 12) oggi ignorate. L’autore dice di non aver voluto raccontare la vera storia di questi personaggi, ma di essersi limitato a esporre «frammenti di ricordi e di sentimenti ritrovati tra i detriti del tempo, rivisitati attraverso le ricerche e le emozioni di protagonisti immaginari» (p. 12) e sembra disperare che la loro storia possa risorgere. Ma tale è l’intensità e l’entità della sua descrizione, irrobustita peraltro da numerosi cenni alla storia dell’Eritrea postbellica esposti sempre nelle stesse modalità, da assumere un’importanza centrale.
È da qui che parte la narrazione, dalla descrizione della vita di uno di quei piloti, Marco Fontanini. A una prima lettura puramente esplorativa a me, che sono un abituale lettore di saggistica ma non di narrativa, è capitato di saltare a piè pari le parti dove si parlava d’altro (che ovviamente ho recuperato in una seconda più attenta lettura) per cercare un discorso continuo sulle vicende degli aviatori: i dettagli delle loro origini, lo svolgimento della loro vita quotidiana, per alcuni i loro amori e, naturalmente, le loro epiche gesta. E ne ho ricavato un interessante quadro delle loro vite (commovente l’amore fra Luca Coronini e la giovane Giulia, vedi p. 104 e seguenti) e dei loro rudimentali ma temibili aerei, i falchi (molto opportune le loro schede alla fine del libro). Tra questi giovanissimi aviatori c’è anche Mario Visintini (1913-1941), il cui “falco” fu abbattuto solo da circostanze naturali avverse: una fitta nebbia e un forte vento lo fecero schiantare contro il monte Bizen che si erge coi suoi 2450 metri di altezza a 25 km a sud-est di Asmara. Tale era la sua fama, ricorda Moruzzi, che il giorno dei suoi funerali in Asmara «si udì il rombo di un caccia inglese abbassarsi sul corteo e sganciare dei fiori avvolti con uno striscione bianco: “omaggio del nemico”» (p. 250). Altri tempi. Il ricordo della sua foto con firma autografa appartiene alla mia prima infanzia. Chissà che qualche regista non ne possa ricavare un bel film, tipo “Pearl Harbor” del 2001. Il volto di Visintini mi ricorda molto quello del Danny Walker del film impersonato da Josh Hartnett.
Su questo nucleo centrale s’innesta la vicenda della protagonista, una giovane trentenne che per aiutare il padre appassionato di antichi velivoli a realizzare il suo sogno di far volare ancora uno di quei “falchi” va in Eritrea alla ricerca di un vecchio pilota. E qui s’innestano molti altri percorsi che Moruzzi ci invita a seguire in una complessa vicenda narrata con continui salti di luogo e di tempo. L’autore scrive di aver voluto così «evidenziare l’intrecciarsi sia dei piani temporali sia delle vicende dei personaggi, fittizi, con gli avvenimenti storici realmente accaduti che fanno da sfondo all’intera narrazione» (p. 12, nota 1). Un tentativo di riconciliazione con gli aspetti umani di quel passato? Su di me ha avuto l’effetto di accentuare quel senso di sospensione spazio-temporale che questo libro mi ha trasmesso. Vi ho anche colto un riflesso del fascino che l’Eritrea ha esercitato sull’autore portandolo a visitare più volte quella terra fino a concepire il desiderio di esprimere sentimenti e sensazioni da lui percepiti sotto quei cieli incredibilmente azzurri, sensazioni così intense da non poterle più tenere tutte per sé. Parlandone, ci sfida a ritrovarle e a riviverle con lui.
Eccoci dunque catapultati dall’Italia all’Eritrea. Si apre subito una doppia linea narrativa, paesaggi urbani e naturali da un lato, paesaggi umani dall’altro. Moruzzi descrive Massaua, un tempo nota come la “Perla del Mar Rosso” e nel 2004 già devastata dalla guerra civile. Descrive Asmara “la piccola Roma” in Eritrea, la città che nel 2017 l’UNESCO ha dichiarato patrimonio dell’umanità per la sua architettura modernista e razionalista. E descrive anche i paesaggi che si aprono a coloro che percorrono la tortuosa carrozzabile che partendo da 2400 metri di altezza connette le due città, quasi una strada del Grossglockner africana. Contemporaneamente Moruzzi descrive le dimore, le abitudini e in parte il carattere di alcuni personaggi da lui creati a somiglianza dei pochissimi italiani che vi sono rimasti e che lui ha incontrato. Per me, nato in Eritrea da genitori nati entrambi in Eritrea, nati a loro volta da genitori andati in quella terra tra il 1890 e il 1894 con i propri genitori e vissuto costì per i miei primi 22 anni, e quindi per gli importantissimi anni dell’età evolutiva, questi passi rivestono comprensibilmente un significato molto particolare. Il confronto con vecchi ricordi sempre molto vivi nel cuore è inevitabile.
Ma è perfettamente inutile fare confronti. L’autore descrive a pieno diritto persone, paesaggi e situazioni come li ha percepiti e la sua percezione non può essere identica alla mia. E mentre leggo quelle sue parole mi convinco sempre più che un libro esiste di per sé e non solo nella mente del lettore come hanno sostenuto alcuni filosofi del Novecento. Sta a me sforzarmi di capire che cosa l’autore intende dire cercando di mettere da parte le mie sensazioni che nel mio caso sono troppo personali. Provo dunque a seguire le sue descrizioni partendo dalle più semplici: il viaggio Asmara-Massaua-Asmara.
L’autore, fedele alla sua impostazione sociologica, è inizialmente attento soprattutto alla relazione fra la protagonista e i personaggi che incontra in viaggio e i resti della presenza italiana che vede. Solo da passi successivi si possono trarre alcune delle emozioni estetiche che quel percorso suscita nel cuore di molte persone sensibili alla bellezza della natura. Questa bellezza della natura eritrea è una delle fonti del famoso mal d’Africa di cui soffrono molti di coloro che hanno soggiornato anche per breve tempo in quella terra.
Asmara: è bella e resta tale anche se i suoi edifici modernisti, non quelli coloniali anteriori agli anni Trenta del Novecento e quelli postbellici, sono stati costruiti da architetti fascisti. «Se è vera Arte è apprezzata per secoli e perfino per millenni», dice un personaggio del libro. «Nessuno si ricorda di che parte politica erano i costruttori delle piramidi o delle stupende chiese rinascimentali italiane» (p. 63) Asmara resta bella nonostante il graduale sgretolamento di molti dei suoi edifici. Li conosco tutti e dunque mentre leggo li rivedo e questo facilita la lettura. Ma la maggioranza dei lettori non ha lo stesso vantaggio. Quelli più curiosi o esigenti possono dare uno sguardo a uno dei tanti libri fotografici sull’architettura italiana in Eritrea. Il mio favorito è Asmara: Africa’s Secret Modernist City, presente anche nell’Internet Archive. Se poi si vuole vedere anche Massaua c’è anche Architettura italiana in Eritrea-Italian architecture in Eritrea, in edizione bilingue.[1]
Massaua: il caldo a volte quasi insopportabile e l’abbondante sudore, inestricabilmente connessi con le frequenti docce ristoratrici, rapidissime e agevoli dati gli abiti sempre succinti, i bagni in quel mare limpido con il suo tepore avvolgente come una morbida carezza, ma anche la profumata brezza marina della sera, il quasi onnipresente rumore della risacca, il penetrante odore di salsedine, i gabbiani, i fiori di frangipane, e sì anche l’aperitivo alcolico o analcolico bevuto al tramonto sulla spiaggia. A tutto questo si aggiunge la splendida architettura definibile moresca in senso molto lato. Se poi si passa alla Massaua notturna il fascino aumenta. Massaua è una città notturna. Non solo le temperature sono più sopportabili, sempre gradevoli, ma le luci pur tenui moltiplicate dalle acque che circondano le due isole con le due dighe che le collegano e il cielo nero le cui numerose stelle non vengono cancellate dalle pallide luci elettriche aggiungono un tocco di magia all’atmosfera medio-orientale già così affascinante di giorno. Moruzzi descrive anche un’immaginaria Massaua notturna del 2004 verso la fine del libro. Uno dei protagonisti dice: «In questi luoghi abbandonati da tutti il tempo che noi conosciamo non esiste più» (p. 252). Qui le tracce della fascinosa bellezza della città sono state fortemente scompaginate da una prolungata e sanguinosa guerra. E questo può anche essere causa di intensi turbamenti. Concordo con lo scrittore. A Massaua spesso si percepisce un certo non so che che esalta piacevolmente i sensi per cui le cose belle sembrano ancora più belle. Mi si conceda qui di cedere all’ondata dei ricordi: Moruzzi non può sapere che un tempo qui aleggiavano intensi odori di spezie d’oriente. Il fertile pensiero di noi ragazzi, esaltato da quel certo non so che, volava alle Mille e una notte a al poema sinfonico di Rimskij-Korsakov, Sheherazade.
Il sentimento di atemporalità e sospensione che il nostro autore percepisce in Massaua ricompare nella sua descrizione degli italiani d’Eritrea. Lui percepisce in loro una signorile ospitalità e una piacevole attitudine alla conversazione spesso intrisa di ricordi sempre interessanti perché insoliti. Egli descrive anche le loro case, appositamente progettate, arredate e attrezzate in vista dell’ospitalità (lo spazio non manca). Negli anni descritti nel libro queste dimore sono appannate dal tempo. Non sono più frequentate da schiere di amici, parenti e ospiti anche illustri, ma ancora pronte a farlo. Uno di questi italiani dice (p. 207):
La vita di oggi avviene in una palude dalle sabbie mobili, dove al posto della sabbia c’è la noia, il tran tran quotidiano, l’indifferenza. In questa palude fatta di traffico d’auto, di consumismo, di volti sconosciuti che corrono in tutte le direzioni, tu scompari nel nulla e nel disinteresse generale. Soltanto qualche familiare o amico si ricorderà, forse, di te. Per questo motivo, dopo una permanenza in Italia, ho deciso di fermarmi in questo piccolo paese, in Eritrea, dove hai la sensazione che il tempo si sia fermato. Certo, forse si è fermato solo per me.
Dice anche che gli occidentali residenti ad Asmara hanno subito (p. 227)
…il fascino della cultura orientale indigena, assorbendo le loro abitudini. Ad esempio quella di destinare parte importante della propria giornata ai piaceri della vita, alla meditazione, alle cose fatte senza fretta. Gli eritrei… accettano che il tempo fluisca normalmente senza cercare di arrestarlo o di velocizzarlo.
In questa atmosfera anche l’amicizia assume un colore e un’intensità molto speciali. Moruzzi ne fa cenno. Questa assimilazione è quello che ha trasformato in alcuni italiani d’Africa una nostalgia che potrebbe essere distruttiva in una parte del loro modo di essere che li rende grati di aver potuto vivere personalmente quelle esperienze e di esserne stati segnati per sempre. Pensate un po’ alle atmosfere de“La mia Africa” di Karen Blixen, tanto il libro quanto il film.
L’ultimo percorso, quello che forse interessa di più agli amanti della narrativa, è la vicenda personale della protagonista, il suo rapporto con il padre, le sue vicende amorose, il suo viaggio in Africa e il suo ritorno in Italia. Moruzzi vi innesta strane coincidenze ed episodi tinti di mistero. Come l’episodio di quel volo aereo notturno che spaventa la protagonista mentre cammina sulla diga di Massaua descritto a p. 91 che lì per lì appare surreale per poi trovare una mezza spiegazione razionale; e l’altro episodio quello della giovane donna misteriosa che il vecchio Marco intravede nella penombra dalla finestra e poi insegue per le strade di Roma che ha inizio a p. 292. Con un andamento ciclico simile a una ballata popolare esso ci riporta al primo capitolo rievocandolo in un’atmosfera onirica dove presente e passato si sovrappongono e che Moruzzi sembra voler lasciare in sospeso. Un’estrema rimembranza della magia africana che lui ha colto e che ora vuol far sentire anche nei frenetici ritmi dei climi razionali d’Italia nei quali il libro si conclude?
A questo punto voglio fermarmi nella speranza di avervi incuriositi con queste mie poche inadeguate parole su un libro così complesso, e non solo per la sua poliedricità. Io, inguaribile “esule africano bianco”,[2] l’ho vissuto come un omaggio non solo a quei giovani aviatori ignorati dalla storia e dalla narrativa, ma anche all’Eritrea e ai suoi passati e presenti abitanti. Servirà a ricordare a tutti gli italiani quelle persone e quella terra che qui sembrano dimenticate?
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[1] Edward Denison; Guang Yu Ren; Naigzy Gebremedhin, Asmara: Africa’s Secret Modernist City, Merrell Publishers, 2007 (vedi https://archive.org/details/asmaraafricassec0000deni); Anna Godio, Architettura italiana in Eritrea-Italian architecture in Eritrea, edizione bilingue, La Rosa Editrice, 2008.
[2] Julio Savi, Il colore del ricordo: poesie d’Africa – The Shade of Remembrance: Poems of Africa, edizione bilingue, Tipografia Zampighi, Bologna, 1921, p. 77; vedi anche “Segni di giorni ormai conclusi”, in Poesie di J. Savi, p. 41 (https://www.maitacli.it/poesie/141-julio-savi/524-poesie-di-j-savi).