11 settembre 2001: vent’anni fa non eravamo pronti

11 settembre 2001: vent’anni fa non eravamo pronti

di Riccardo Gramantieri

Sono passati vent’anni dall’attacco a Manhattan. Quando accadde, l’immagine vista alla televisione delle torri che crollavano sembrava un film catastrofico. Da allora, è accaduto anche un altro evento che pare uscito fuori da un film: l’ultimo anno e mezzo delle nostre vite è stato attraversato dall’epidemia di Covid-19, un evento che credevamo possibile solo nei film di fantascienza. È passato un secolo da quando scoppiò l’epidemia di Spagnola, la più grande infezione su scala mondiale del Ventesimo secolo, e da allora niente si era ripetuto con tale virulenza. Le difficoltà incontrate nel contrastare la malattia e la mancanza di un’organizzazione preventiva hanno causato enormi difficoltà. David Quammen nel suo saggio sul Covid-19 “Perché non eravamo pronti” riporta la frase del virologo Ali Kham che dice che non siamo stati pronti a fronteggiare la malattia “per una mancanza di immaginazione”. Non esistevano esempi recenti e “vissuti” in prima persona con cui confrontarsi. Nel 2001, quando accadde l’attacco alle torri, ugualmente non eravamo pronti. Pur avendolo immaginato in tante storie di fantascienza, non lo pensavamo realmente possibile. L’evento fu talmente eccezionale che cambiò il nostro vocabolario: prima dell’11 settembre 2001 il termine Ground Zero identificava l’ipocentro dello scoppio della bomba Little Boy su Hiroshima. Fu quello un evento epocale: la prima dimostrazione agli occhi del mondo dell’energia atomica e la fine della Seconda guerra mondiale. Dopo l’11 settembre tale denominazione si riferisce al sito ove sorgevano le Torri gemelle. Oggi chiunque di noi con quel termine identifica un luogo a Manhattan che è divenuto simbolo dell’apocalisse del presente.

Questo mutamento nel lessico, e nel pensare, è avvenuto perché gli Stati Uniti, paese che nel nostro immaginario è simbolo di progresso e di libertà, non avevano mai subito sul proprio suolo un attacco simile. La traumatica vicenda di Pearl Harbor, che ad alcuni potrebbe sembrare un precedente, avvenne nella base militare delle isole Hawaii, e pertanto l’azione venne percepita dai cittadini di tutto il mondo, e non solo americani, come lontana dal paese. Quando i quattro aerei attaccarono le torri gemelle, il Pentagono e Washington, cioè i centri nevralgici del paese, compirono un’azione che non aveva precedenti e che nessuno credeva possibile. Questa impossibilità derivava dal senso di sicurezza e di inattacabilità che si attribuiva al paese che, agli occhi del mondo, aveva vinto la Seconda guerra mondiale e che si ergeva a paladino della libertà agli occhi del mondo occidentale. Gli Stati Uniti non avevano conosciuto guerre con nemici esterni ai loro confini e pertanto non immaginavano un nemico. Se a questo si aggiunge che il terrorista, nuova figura di soldato in un nuovo tipo di guerra, è un cane sciolto invisibile alle frontiere e nelle strade, il terrore infestò la mente di ogni persona creando paure ed ossessioni. Viaggiare divenne più difficile e ogni persona che non corrispondesse a certi modelli del nostro immaginario culturale, divenne sospetta. Quanto successo nel 2001 sembra essersi ripetuto e aggravato nell’ultimo anno con il Covid, il nemico invisibile: viaggiare è stato impossibile e si è diffidato di tutti coloro con cui si veniva in contatto.

Post 11 Settembre Gramantieri

Il presidente George W. Bush il 20 settembre 2001 pose alla nazione la domanda “Perché ci odiano?”. Diversi intellettuali cercarono di dare risposta a questa domanda. Noam Chomsky, Martin Amis, John Updike, Don DeLillo e altri, diedero le loro interpretazioni. Forse gli Stati Uniti venivano odiati perché, nella loro politica autocentrica, l’Altro non esiste. Si individuò l’origine dell’attacco alle Torri gemelle in una reazione alla politica interventista che gli Stati Uniti avevano effettuato in ogni angolo del mondo, a partire dal Vietnam, ma l’eccezionalità dell’evento lo faceva comunque apparire senza precedenti e non immaginabile.

La peculiarità dell’attacco al World Trade Center non è data dalle dimensioni del disastro, che per numero di morti non è stato più grande di altre tragedie perpetrate nel mondo, quanto dalla sua eccezionalità storica. Nel corso dei secoli, le grandi potenze hanno spesso abusato della propria superiorità tecnologica ed economica per sottomettere paesi più deboli, non peritandosi di commettere atrocità nei loro confronti, certi che quella loro superiorità consentisse una sostanziale immunità. I giapponesi compirono diversi massacri in Cina, ma Tokyo non fu mai oggetto di alcun attacco terroristico cinese; oppure, quando la Serbia venne bombardata con l’appoggio degli Stati Uniti, non accadde nulla nelle capitali dei paesi coalizzati per l’attacco. Come ha fatto notare Chomsky, succede sempre da qualche altra parte. E così è stato per secoli. Non era pensabile, e dunque possibile, che un attacco nel cuore economico e simbolico degli Stati Uniti potesse accadere. Non si può essere pronti a fronteggiare qualcosa che non si crede nemmeno possibile.

Questo stato mentale ha contribuito a creare una vulnerabilità che non è solo del sistema di protezione degli Stati Uniti, ma della stessa psiche individuale. Dopo quella data, quasi ogni cittadino occidentale si è sentito indifeso perché non aveva memoria di eventi simili sui quali basare il proprio comportamento. È vero che c’erano già stati attentati sul suolo americano (uno proprio nel parcheggio sotterraneo del World Trade Center nel 1993, e un altro a Oklahoma City nel 1995) ma questi apparivano eventi isolati e di piccola entità che non scalfivano l’idea che l’America fosse un paese sicuro nel proprio territorio. A questo si può aggiungere che il cittadino medio occidentale per anni ha pensato il Medio-Oriente come un insieme di paesi in via di sviluppo che, quando non appoggiati dalla grande potenza di turno (Russia e America), sono sostanzialmente privi di armamenti pesanti, e quindi inoffensivi. Il popolo americano viveva quindi nel mito della propria nazione, e questo l’ha portato a pensare di abitare un paese sicuro. Non si era mai accorto dell’assenza di misure di sicurezza che potessero evitare un’eventuale minaccia terroristica e, forse ancora peggio, non si era accorto di avere un nemico non individuabile. Tutto era nell’area della fantasia. Molti commentatori hanno riferito che la frase ricorrente davanti alle immagini degli aerei che hanno colpito i grattacieli è stata “era proprio come un film”. Già l’attentato dinamitardo del 1993 aveva realizzato ciò che un film come L’inferno di cristallo di vent’anni prima aveva descritto nella finzione, e già dopo quell’attacco il New York Times aveva ammesso che gli Stati Uniti erano impreparati e relativamente vulnerabili, mentre il Time scriveva che gli americani non erano abituati all’esplosione di un autobomba, perché il terrorismo era qualcosa che sembrava dovesse accadere altrove. L’impossibilità a pensare l’attacco alle Torri gemelle è stata generata dall’abitudine a pensare che la politica espansionistica degli Stati Uniti fosse non solo “normale” e anzi benefica per il mondo, ma che non potesse comportare gravi conseguenze sul suolo americano. Dopo il 2001, che fino ad allora era stato semplicemente l’anno dell’odissea nello spazio, l’immagine fantascientifica della catastrofe divenne reale e il pensiero dell’attacco alle Twin Towers diviene pensabile.

Riccardo Gramantieri, laureato in ingegneria e in psicologia clinica, è autore di saggi quali William Burroughs: manuali di sopravvivenza, tecniche di guerriglia (Mimesis, 2012); Ipotesi di complotto, paranoia e delirio narrativo nella letteratura americana del Novecento (con G. Panella, 2012); Sogno Mito Pensiero. Freud Jung Bion (con F. Monti, Persiani 2014); Post-11-settembre. Letteratura e trauma (Persiani 2016); Fenomeno ufo. Science and fiction 1945-1961 (Mimesis, 2018). Suoi articoli sono apparsi, fra gli altri, su Il Minotauro, Psicoterapia e scienze umane, Language and Psychoanalysis.